15 – Perchè far nascere chi convien consolar del suo esser nato

2017 – Perchè far nascere chi convien consolar del suo essere nato, in AAVV. Nascita e ri-nascita. L’elogio della vita., Lateran University Press, Roma 2017
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
(Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. G. Leopardi)
Introduzione
I versi di Giacomo Leopardi ci introducono nel cuore della questione riguardante il senso della nascita. La domanda posta dal poeta sul senso del mettere al mondo chi poi dovrà essere consolato del suo essere nato é presente in tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutte le latitudini ed ha trovato espressione nella letteratura e nel pensiero di grandi filosofi.
É una domanda che, certamente, conduce a quella riguardante il significato dell’esistenza.
Jean Paul Sartre in un’opera teatrale scritta nel campo di concentramento in cui è tenuto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, per ricordare agli altri prigionieri il senso del Natale, fa dire al capo di un villaggio della Galilea che poi assisterà alla nascita di Gesù:
Non avremo più rapporti con le nostre donne. Non vogliamo più perpetuare la vita, né prolungare le sofferenze della nostra razza. Non genereremo più, consumeremo la nostra vita nella meditazione del male, dell’ingiustizia e della sofferenza. E poi, in un quarto di secolo, gli ultimi tra noi saranno morti.
Gli abitanti del villaggio non contenti di questa proposta obietteranno:
È possibile passare il resto dei nostri giorni senza vedere il sorriso di un bambino?
Il silenzio ferreo s’infittisce intorno a noi. Ahimè, per chi dunque lavorerò?
Potremmo vivere senza bambini?
Il capo, però, fermo nella sua posizione, risponde:
Osereste dunque ancora creare giovani vite con il vostro sangue marcio? Volete rinnovare con uomini nuovi l’interminabile agonia del mondo? Quale destino desiderate per i vostri futuri bambini? Che abitino qui, solitari e spennati, con l’occhio fisso come degli avvoltoi in gabbia? Oppure che scendano laggiù nelle città, per farsi schiavi dei Romani, lavorare a tariffe di fame e finire, forse morire sulla croce.
Rispondere alla domanda sul senso del far nascere, non solo in senso fisico, ma anche in quello spirituale del condurre un’altra persona ad essere cosciente del significato autentico del suo esistere, significa individuare una direzione da dare alla esistenza, rinvenire una ragione per cui essa meriti di essere vissuta.
Si può dare la vita solo se il dolore, la fatica vissute nella propria esistenza non sono prive di senso e sono capaci di generare amore e letizia.
L’essere relazionale della persona umana: individualità inviolabile e naturale apertura all’altro da sé
Noi tutti veniamo posti o adagiati, come preferisco dire io, in un’esistenza che non abbiamo scelto e che, per questo, risulta essere un dono che ci viene offerto senza nessun merito.
È qualcun altro che, nostro malgrado, ci offre questo dono.
In un’opera redatta sotto forma di appunti per un corso da tenere all’Istituto di Pedagogia Scientifica di Münster, Edith Stein scrive:
«La considerazione di un individuo umano isolato è un’astrazione. La sua esistenza è esistenza in un mondo, la sua vita è vita in comunità. E queste, non sono relazioni esteriori che si aggiungono ad un essere esistente in stesso e per se stesso, ma l’inserimento in una totalità più ampia fa parte della struttura dell’essere umano»[1].
L’essere umano sin dall’inizio della sua esistenza è segnato da una duplice realtà: quella della sua individualità inviolabile e quella della sua naturale apertura all’altro da sé.
In particolare egli sin dal primo istante della sua esistenza è chiamato a vivere una relazione con ciò che lo circonda e, soprattutto, con gli altri esseri umani.
Egli vive la sua esistenza in una dimensione sociale. Il suo essere è, per natura, relazionale: radicalmente immerso nella sua individualità, egli è, altrettanto profondamente, aperto alla relazione con ciò che non fa parte di tale individualità e che può, per questo, contribuire alla sua crescita.
La relazione con l’altro da sé, così come l’intera realtà del proprio essere, è data.
Il più delle volte non si sceglie di entrare in relazione con una realtà, con altre persone e persino con Dio stesso. Ci si trova implicati in essa.
All’inizio dell’esistere e, quindi, dell’entrare in rapporto con quello che ci circonda, vi è l’essere posti in una realtà che non si è scelta e con la quale si è chiamati ad intrattenere un rapporto.
Questo dato di fatto, che non è per nulla determinabile, chiede una presa di posizione radicale: accettare di entrare in relazione con quello che è dato di vivere o, al contrario, impegnare tutta la propria energia in un rifiuto continuo di essa.
L’essere posti nella realtà può essere sentito come una violenza, l’”essere gettato” di Heidegger, la presenza di ciò che costituisce il proprio mondo avvertita come un fastidio e il rapporto con gli esseri umani identificato con il male più radicale: gli altri sono l’”inferno”.
Il primo elemento determinante di una esistenza autentica, allora, è la scelta libera di accogliere l’essere che ci è incessantemente donato e che, per questo, costituisce un valore per sé e per l’altro.
Non si può vivere se non si accetta il fatto che all’origine dell’esistenza vi è una datità totalmente gratuita.
Come deve essere intesa questa gratuità?
Anche in questo caso si è posti dinanzi ad una alternativa: o essa è segno dell’amore infinito di un Essere che, liberamente, sceglie di creare tutto ciò che esiste per godere della relazione con esso o è segno di un altrettanto infinito odio che ha origine da un essere divino malefico che si diverte a giocare con ciò che ha generato, fino a distruggerlo per un capriccio.
Appare chiaro che dalla scelta fondamentale che si compie in questo caso dipende lo sviluppo della propria esistenza.
Anche chi ritiene l’esistenza priva di senso, generatrice di sofferenza deve prendere posizione nei confronti di essa. Pensare di essere stati gettati in una realtà di cui non riusciamo ad apprezzare nulla e che ci provoca nausea per il solo fatto di esserci, non elimina il compito fondamentale della vita che è quello di essere custodi responsabili o meno di ciò che ci é stato donato.
Se lo si custodisce vi è la possibilità di cercarne il senso profondo, accogliendone l’immenso valore, in un esercizio continuo di umiltà attraverso il quale non si cerca di imporre all’esistenza una direzione desiderata e non corrispondente a quella che essa ha. E questo in un atteggiamento pronto a coglierne il senso più autentico: quello impresso in essa da chi l’ha creata e la mantiene in essere per amore.
Si nasce nell’amore e per amore: ciò che accompagna l’esistenza in tutti i suoi momenti è l’amore, un’attitudine, fondamentale nella persona, a far sì che il centro affettivo dell’esistenza non sia il proprio io, chiuso in se stesso, ma l’oggetto ultimo del proprio desiderio. Ed è questo amore che definirà i connotati del proprio essere. Giovanni Paolo II in alcuni versi afferma:
Nacque il tuo nome da ciò che fissavi.[2]
E ancora:
L’amore mi ha spiegato ogni cosa,
l’amore ha risolto tutto per me –
perciò ammiro questo Amore
dovunque Esso si trovi.
E poiché sono una distesa aperta al flusso silenzioso
che non ha nulla dell’onda tonante che non pioggia ai tronchi iridescenti
mi ha molto di un’onda quieta che scopre luce negli abissi
e alita questo chiarore su foglie non inargentate.
Perciò in quel silenzio io-foglia
liberata dal vento,
non mi curo più di alcuno dei giorni inabissati
perché so che tutti s’inabisseranno[3].
E Romano Guardini chiarirà:
Una certa analogia di tale situazione avverte colui per il quale un uomo acquista un significato essenziale. Non «l’Umanità» o «l’umano» divengono in tal caso importanti, ma questa persona. Essa determina tutto il resto, e tanto più profondamente e universalmente quanto più intensa è la relazione. Ciò può avvenire in un modo così possente che tutto, mondo, destino, compito si attua attraverso la persona amata; essa è come contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, a tutto essa dà un senso. Nell’esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L’elemento personale a cui in ultima analisi intende l’amore e che rappresenta ciò che di più alto c’è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma: spazio e paesaggio, pietre, alberi, animali.
Tutto ciò è vero, ma ha una risonanza solo tra questo Io e questo Tu[4].
La reale soddisfazione dei bisogni più intimi dell’essere umano coincide con l’attaccamento a ciò che dà valore al suo esistere e chiede un distacco sempre più profondo dal proprio sé. In questo modo l’esistenza acquista significato solo se diviene dono di se stessa per dare testimonianza di ciò che ad essa dà valore.
E questo senza alcuna paura di perdere nulla del proprio essere come può fare un padre con i suoi figli.
Charles Peguy ci mostra il senso della paternità umana e di Dio stesso proprio individuandone nell’amore la radice:
Chiedete a questo padre se il momento migliore
non è quando i suoi figli incominciano ad amarlo come degli uomini,
lui stesso come un uomo,
liberamente,
gratuitamente,
chiedete a questo padre i cui figli crescono.
Chiedete a questo padre se non c’è un’ora segreta,
un momento segreto,
e se non è
quando i suoi figli incominciano a diventare degli uomini,
liberi,
e lui stesso lo trattano come un uomo,
libero,
lo amano come un uomo,
libero,
chiedete a questo padre i cui figli crescono.
Chiedete a questo padre se non c’è un’elezione fra tutte
e se non è
quando la sottomissione precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini
lo amano, (lo trattano), per così dire da intenditori,
da uomo a uomo,
liberamente,
gratuitamente. Lo stimano così.
Chiedete a questo padre se non sa che niente vale
uno sguardo d’uomo che s’incrocia con uno sguardo d’uomo.
Ora io sono loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell’uomo.
Tutte le sottomissioni di schiavi del mondo non valgono un bello sguardo d’uomo libero.
O meglio, tutte le sottomissioni del mondo mi ripugnano e darei tutto
per un bello sguardo d’uomo libero
a questa libertà, a questa gratuità io ho sacrificato tutto, dice Dio,
a questo gusto che ho d’essere amato da uomini liberi,
liberamente,
gratuitamente,
da veri uomini, virili, adulti, saldi.
Nobili, teneri, ma di una tenerezza salda.
Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto,
per creare questa libertà, questa gratuità, Per fare entrare in gioco questa libertà, questa gratuità.
Per insegnargli la libertà[5].
Non vi può essere amore senza libertà.
Non vi può essere legame autentico senza che esso abbia a proprio fondamento una scelta libera.
Edith Stein a più riprese e in contesti diversi affronta il tema della libertà. Ella mostra come la libertà può essere compresa a partire dalla descrizione delle diverse modalità con le quali si realizza nelle diverse forme di vita vissute dalla persona umana: quella naturale-spontanea, quella della vita padrona di se stessa e quella della vita liberata.
Nella prima forma di vita abbiamo «un continuo alternarsi di impressioni e reazioni»,[6] cui l’anima è sottomessa. Essa vive la sua vita immersa in un mondo dal quale riceve impressioni e vi reagisce, prende posizione nei confronti di esse a partire dalla sua natura. L’attività che l’anima svolge è un’attività passiva. Il soggetto sottoposto a queste reazioni non possiede se stesso ed è mosso dall’esterno.
Si tratta di un comportamento non libero.
A questa forma di vita la Stein contrappone la vita liberata.
Essa è caratterizzata dal fatto che l’anima: «non viene mossa dall’esterno, ma guidata dall’alto»[7].
La libertà in questa forma di vita è, prima di tutto, un’attività passiva mediante la quale l’anima è sottratta al gioco spontaneo e istintivo delle impressioni e reazioni. Essa, però, non può sottrarsi autonomamente a questo gioco. Ha bisogno di un legame mediante il quale sfuggire al meccanismo naturale.
Giungiamo così al livello dell’esistenza che può essere qualificato come personale. La persona, vive l’attività di percezione delle impressioni e di risposta ad esse a partire da un centro, un nucleo dell’anima che la Stein identifica con il termine Io. Proprio la vita condotta a partire da questo nucleo può sottrarre, in una certa misura, l’essere umano al meccanismo naturale delle impressioni e reazioni. La persona padrona di se stessa:
«può – può, non deve – ricevere le impressioni dell’anima da quel centro […] le reazioni alle impressioni ricevute derivano da lì»[8].
Tuttavia questo non la preserva dalla possibilità di sprofondare al di sotto dello stadio animale qualora essa faccia un cattivo uso della propria libertà.
Giungiamo così alla forma di esistenza nella quale la libertà trova il suo pieno compimento: la vita vissuta secondo la Grazia. Essa inizia laddove vi è un atto libero di dedizione di sé ad una realtà spirituale che trascende la natura.
Questa sottomissione può avvenire in maniera diretta o indiretta[9].
L’abbandono, il dono totale e gratuito di sé, è l’atto più libero della libertà.
In questa espressione rinveniamo il cuore della riflessione della Stein sulla libertà.
Non si può essere liberi se non si riconosce il primato della Grazia che, tuttavia, non può agire senza l’assenso operoso dato in ragione della propria libertà. La libertà di Dio, onnipotente, sembra trovare un limite nella libertà dell’essere umano. La Grazia non può salvare senza la disponibilità di colui che deve essere salvato.
Essa usa degli astuzie per attrarre l’anima a sé e condurla alla salvezza. La libertà umana non può essere distrutta, ma può essere conquistata e quindi innalzata dall’onnipotenza divina.
Non si può parlare della libertà senza la considerazione del rapporto originario dal quale l’uomo riceve l’essere e dal quale solo può imparare la modalità di affronto di tutti gli altri legami che, nella sua esistenza, gli è dato di vivere.
La libertà umana è una libertà finita. Essa vede l’intersecarsi di due polarità: la capacità di possedersi e quella di aderire a quanto stabilito dalla volontà divina che liberamente ha fatto dono di essa alla persona, al fine di accompagnarla nel cammino di realizzazione della sua esistenza. La padronanza di sé di cui l’essere umano è capace trova compimento in una adesione alla libertà di Dio che la libera dalle pastoie della propria istintività per predisporla ad accogliere amorevolmente quanto Egli ha stabilito per lei. Così la libertà umana può trovare la sua piena realizzazione solo in quella divina:
«Il diritto di autodeterminazione è una proprietà inalienabile dell’anima. Esso costituisce il grande mistero della libertà personale, davanti alla quale Dio stesso si arresta. Egli infatti vuole il dominio sugli spiriti creati unicamente sotto forma di un libero dono offertogli dal loro amore. Egli conosce i pensieri del cuore, scruta le profondità e gli abissi dell’anima, anfratti vertiginosi che lo sguardo di quest’ultima non riesce nemmeno a sondare, se Dio non le offre l’illuminazione adatta. Però Egli non vuole prenderne possesso senza che essa vi dia il suo assenso. Malgrado questo, fa di tutto per cattivarsi il libero assenso della di lei volontà alla sua, ma cercando di ottenerlo come un dono del suo amore, per avere modo di condurla all’unione beatificante»[10].
È un movimento nel quale l’essere se stessi fin nell’intimo più profondo, conduce ad una apertura nei confronti di un altro essere che vuole prendere possesso della propria anima per ricolmarla del bene cui l’ha destinata e che ella tanto desidera senza aver la capacità di raggiungerlo con le sue forze.
La libertà trova un’immagine compiuta di sé in quella con la quale Dio crea e mantiene in essere tutte le cose e la sua piena realizzazione nell’amore stesso. Affinché l’amore si affermi nel dono gratuito del proprio essere, la persona deve essere totalmente libera: realizzare il possesso completo e pieno di sé nel quale si rivela, allo stesso tempo, l’apertura nei confronti dell’altro da sé.
In ciò si manifesta uno dei misteri più grandi dell’essere umano.
Attraverso la libertà l’essere umano può darsi ad un’altra persona ed entrare in relazione con la realtà proprio a partire da questo suo consegnarsi all’altro.
Ora ci chiediamo come possa l’essere umano, segnato radicalmente dalla sua individualità, entrare in una relazione autentica e proficua con l’altro da sé senza perdere nulla di questa individualità.
In altre parole, come si può amare offrendosi all’altro senza che per la persona questo significhi perdere se stessa?
Nella Fenomenologia dello spirito Hegel ha affrontato questo problema introducendo la dialettica del servo-padrone. Attraverso di essa ha mostrato la difficoltà di pensare in termini positivi il rapporto che si instaura fra due esseri che hanno la consapevolezza di sé. Secondo Hegel, infatti, l’incontro-scontro fra due autocoscienze non può che condurre alla sottomissione di una di esse all’altra. E, d’altra parte, nel momento in cui l’autocoscienza che ha scelto di sottomettersi all’altra, per non soccombere, si riappropria di sé mediante il lavoro, divenendo così essa stessa signora di quella a cui aveva scelto di sottomettersi, la sostanza del rapporto non cambia. Si ha semplicemente un alternarsi di ruoli o di posizioni nelle quali le autocoscienze vengono a trovarsi, ma l’essenza della relazione rimane la stessa: l’alienazione. Ci si trova così dinanzi all’impossibilità di pensare ad un rapporto fra persone che non sfoci nella conflittualità. Una conflittualità nella quale l’accrescimento della forza e della realizzazione di una di esse deve corrispondere necessariamente alla diminuzione del valore e al progressivo annientamento dell’altra.
Siamo tutti a conoscenza delle conseguenze di questo tipo di visione sul piano filosofico e storico.
Anche il già citato Sartre ne ”L’Essere e il Nulla” sostiene che la coscienza individuale incontra l’essere non solo nella realtà massiccia e opaca delle cose, ma anche nell’altra coscienza. Mediante essa ha la speranza di poter evadere dal proprio stato di indigenza. Tuttavia anche l’essenza dell’altro é una negazione: esso é “l’io che non é me”. Il rapporto con l’altro risulta, dunque, segnato dalla negatività. L’esperienza originaria tramite la quale si istituisce questo rapporto tra due coscienze é data dallo sguardo nel quale l’altro appare in un primo tempo come una cosa, poi come una cosa che ha rapporto con altre cose e, infine, come l’altro che mi guarda. Col suo sguardo mi oggettiva e conosce me meglio di quanto possa fare io stesso, dato che io non posso mai oggettivarmi, distanziarmi come un oggetto da me stesso. In questo modo arrivo alla conclusione che “io sono quel me che un altro conosce” e mi sento trasformato in un oggetto inerme e nudo davanti all’altro. Con lo sguardo l’altro aliena le mie possibilità, cosicché non sono più padrone della situazione: affiorano così le emozioni del timore, del pudore, della vergogna, dell’orgoglio. I rapporti tra l’io e l’altro sono, dunque, conflittuali. Le polarità del rapporto con l’altro assumono la forma dell’odio e dell’amore, ma sia l’odio, come tentativo di annullare l’altro nella sua alterità, riducendolo a corpo e strumento e privandolo di ogni reciprocità, sia l’amore, come tentativo di possedere l’altro senza oggettivarlo e ridurlo a cosa o a strumento, si rivelano impossibili. Naufragati i progetti di raggiungere l’unione con l’altro, tramite il suo annullamento o la conciliazione con esso, il rapporto con l’altro può assumere le vesti della cooperazione nell’essere insieme del gruppo o della classe sociale, ma anche in questi casi l’altro rimane inafferrabile e il rapporto tra le coscienze continua a configurarsi come conflittuale.
Quale diversità di sguardo nei confronti della possibilità di entrare in rapporto con l’altro emerge, invece, dalle parole di Edith Stein:
«Guardo un essere umano negli occhi e il suo sguardo mi risponde. Mi lascia penetrare nella sua interiorità o mi respinge. Egli è signore della sua anima e può chiudere o aprire le sue porte. Può uscire da se stesso e penetrare nelle cose. Quando due esseri umani si guardano, un io sta di fronte ad un altro io. Può essere un incontro che avviene sulla porta o nell’interiorità. Quando è un incontro che avviene nell’interiorità, l’altro io è un tu»[11].
L’essere umano può agire in maniera libera, vale a dire ergersi al di sopra della natura, ma, al contempo, scegliere di votarsi ad una realtà spirituale che possa salvaguardarla dal ricadervi. La libertà come possesso di sé non può mai attuarsi pienamente se non è sorretta da una realtà che le impedisca di rimanere impantanata nella natura. Ecco perché, per l’essere umano, è indispensabile scegliere di dare se stesso ad un essere che possa difenderlo dal meccanismo cui la dimensione corporea e psichica lo consegnerebbe.
È chiaro, allora, che se la libertà ha un senso è quello di permettere alla persona umana di legarsi a qualcuno che, paradossalmente, possa salvarlo da se stesso. Questo legame è l’amore.
Se questo non accade ella perde la propria forza vitale, si svuota e consuma il proprio essere senza poter trovare il nutrimento necessario per continuare a esistere.
Risulta fondamentale, allora, la modalità con la quale questo legame si realizza.
La Stein considerando il legame che l’essere umano può intrattenere con una realtà spirituale che si mostra come signore di un determinato dominio che ella chiama regno afferma:
«L’anima può trovare se stessa e la sua pace solo in un regno il cui signore la cerca non per amor proprio, ma per amor suo. Noi lo chiamiamo regno della Grazia in ragione di questa pienezza che non desidera possedere, ma trabocca e si dona. E poiché ciò significa essere presi ed elevati lo chiamiamo il regno dei cieli»[12].
L’essere umano può scegliere, mediante la sua libertà, di darsi ad uno spirito che vuole solo impossessarsi della sua anima. Il risultato di questo legame è una completa schiavitù nei confronti della persona cui ci si è consegnati che non può che condurre ad un annientamento totale del proprio essere. Questo perché l’essere che si è scelto di amare ha come centro del proprio interesse unicamente se stesso. Così accade che si distrugge ciò che si ama come affermava il titolo di un brano contenuto nella colonna sonora di un film degli anni settanta.
Infatti, un amore verso un essere che ha a cuore unicamente il possesso dell’anima che ad esso si è votata non può che tramutarsi in un completo svuotamento di essa che porta al suo annullamento. Il signore che cerca di afferrare l’anima per possederla non ama, ma odia. La Stein a questo proposito osserva:
«L’odio è la reazione specifica del male, o più correttamente, lo specifico atto spirituale, attraverso il quale il male può emanare la sua stessa essenza materiale e deve farlo necessariamente. Il male è un fuoco che consuma. Se rimanesse in se stesso, dovrebbe consumare se stesso. Per questo deve, eternamente e inquietamente desideroso di uscire da sé, cercare un luogo da dominare nel quale possa stabilirsi e portare fuori di sé tutto ciò che viene afferrato da lui e dalla sua particolare inquietudine»[13].
Cosa avviene, invece, nel legame con un essere che ama di un amore autentico?
L’essere umano amato in maniera vera sperimenta un mutamento nelle proprie reazioni naturali e la presenza in sé di atti spirituali conformi a questo amore. Accoglie nella sua anima la presenza di amore, misericordia, perdono, pace anche là dove non sembrerebbero dover albergare. La consapevolezza e l’accoglienza di un tale amore può condurre ad agire in modo che agli altri può apparire follia.
L’amore autentico fa in modo che l’amato venga totalmente riempito dal signore che si è impadronito della sua anima e che, nel donargli se stesso, non perde nulla di ciò che dona.
In questo modo lo custodisce e lo preserva dal ricadere nel meccanismo della vita naturale. E se il male può essere paragonato ad un fuoco che consuma l’altro perché non può consumare se stesso, colui che ama di un amore autentico può essere assimilato ugualmente ad un fuoco che arde e non consuma, ma scalda l’anima di chi è amato e quella di chi entra in relazione con essa.
Il modo in cui ciò si realizzi possiamo solo ascoltarlo dalle testimonianze di coloro che l’hanno sperimentato in un abbandono totale.
La persona che accoglie in sé un tipo di amore come è quello precedentemente descritto subisce senza alcun dubbio un cambiamento radicale.
Un altro essere sembra vivere in lei eppure la sua individualità non viene distrutta. Essa impregna di sé tutto ciò che entra nell’anima o che esce da essa. Così la Stein può affermare:
«Questa individualità è intangibile (intangibilis). Ciò che entra nell’anima e ciò che ne esce, è impregnato dalla individualità. Anche la Grazia è accolta da ogni anima secondo la propria individualità. La sua individualità non viene distrutta dallo spirito della luce, ma si unisce a lui e vive così veramente una nuova nascita. Quindi, l’anima vive nella più totale e pura autenticità solo se rimane in se stessa»[14].
Il legame con chi ama di un amore autentico si configura, allora, come un’unione fra due persone che reciprocamente donano se stesse l’una all’altra in uno spazio a loro riservato nel quale la propria specificità viene esaltata nell’essere donata.
Accade, allora, che nel donarsi all’essere che la ama di un amore autentico, la persona ritrovi se stessa in tutta la sua pienezza.
Tutto quanto la insidia dall’esterno non può nulla contro la difesa eretta per lei da colui che la ama.
La sua individualità viene esaltata proprio nel momento in cui ella sceglie di accogliere in sé l’efficacia dell’amore autentico che ne muta le predisposizioni e le reazioni naturali.
Il paradosso di un consiste un legame di amore autentico consiste nel fatto che l’individualità non solo non viene distrutta e, quindi, persa, ma al contrario, viene alimentata, nutrita con ciò di cui ha bisogno per esistere e, perciò, salvata.
Accogliendo l’immagine del castello proposta da Santa Teresa d’Avila, Edith Stein ci restituisce l’immagine di una fortezza all’interno della quale l’anima trova protezione contro gli attacchi di chi vuole distruggerla. L’amore si configura come un muro di cinta posto a difesa del luogo nel quale la persona può incontrare il signore a cui ha consegnato la sua esistenza e dal quale riceve ogni bene e grazia. E questo luogo è un luogo unico, irripetibile, che viene reso ancora più bello ed accogliente nel momento in cui deve essere pronto ad ospitare la persona che, a motivo dell’amore che ci ha donato, è degna di essere riamata di un amore ancora più grande.
Tuttavia questo amore non può non generare sofferenza. Una sofferenza che scaturisce dalla consapevolezza del proprio limite e dal fatto che questo limite viene frantumato dalla presenza debordante di colui che ama.
Il legame con l’amante risveglia la percezione del proprio limite e può essere il punto di avvio per una risposta di amore vissuta nella più profonda libertà.
Ciò che può preparare a superare il limite è solo la disponibilità a lasciarsi afferrare e conquistare da chi ci ama di un amore vero. Per essere così pronti ad accogliere quest’azione occorre però avere in mano tutto il proprio essere. Così la Stein può affermare che:
«…per potersi abbandonare così, essa [l’anima] deve afferrarsi così forte, lasciarsi abbracciare dal centro interiore con tale forza, che non può più perdersi. L’abbandono è l’atto più libero della libertà»[15].
La libertà trova il suo compimento nell’amore. È perché l’amore si affermi nel dono gratuito del proprio essere, la libertà deve raggiungere il suo vertice: il possesso completo e pieno di sé nel quale, però, si rivela, allo stesso tempo, l’apertura nei confronti dell’altro da sé. La libertà che non teme riduzioni è solo quella che lascia essere l’altro perché ne riconosce la bontà. Lo lascia essere senza temerlo, anzi, vive perché esso abbia il suo compimento più autentico.
Lasciarlo essere però comporta il sacrificio di sé.
Nell’ultima opera scritta per celebrare la figura e commentare le opere di San Giovanni della Croce, Edith Stein, parlando della Fiamma viva d’amore, afferma:
«La fiamma della vita divina tocca l’anima con la soavità della vita divina e la ferisce così potentemente nell’interiore profondissimo da scioglierla tutta in amore. Come si può qui ancora parlare di ferita? In realtà queste ferite sono come soavi fiamme di tenero amore, giochi dell’eterna Sapienza, piccole fiamme di tocchi soavi in cui l’anima viene toccata incessantemente da quel fuoco d’amore che non è mai inerte»[16].
L’amore, allora, strappa l’essere umano dal suo limite per condurlo alla piena realizzazione di sé e lo fa con l’aiuto della sua stessa libertà che diviene così la fessura attraverso la quale l’amante può penetrare per iniziare la sua opera di salvezza.
«Tu però porti avanti il Tuo piano.
Si potrebbe dirti spietato, nel senso che sei risoluto: i Tuoi piani sono irreversibili. Più strano di tutto è ciò che appare alla fine: cioè che Tu non mi contrasti quasi mai. Entri con irruenza solo in quella ch’io chiamo la mia solitudine e fai a pezzi l’ostinazione che in me le è connessa. Ma è poi vero che entri con irruenza? O forse entri da una porta che è sempre aperta. Non mi hai creato chiuso, non mi hai serrato bene. Il desiderio di solitudine non è affatto sul fondo, ma sempre affiora da qualche fessura del mio essere, che è molto più larga di quanto potessi mai immaginare. Proprio di là tu entri e lentamente cominci a farmi crescere dall’interno. Mi fai crescere nonostante tutto quel che immaginavo di me stesso, e tuttavia in armonia con quel che sono. Posso forse stupirmi che dentro di me Tu sia più forte di me? Arriverai a me tramite il bambino – e dentro di me la mia ostinazione sarà spezzata. Nulla resterà della solitudine con cui cercavo di oppormi a Te – Tu invece ti esprimerai profondamente. Eppure io a poco a poco cesserò di avere il senso che sia Tu ad esprimerti in me, a poco a poco comincerò a credere di essere io ad esprimermi. Così sarà fin quando l’amore non prenda a dolere. Dorrà per la sua stessa sovrabbondanza, dorrà per l’incompletezza di un “io” in un altro “io” adorato o viceversa… Ma proprio allora si vedrà più chiaramente che l’uomo non può bandire dalla sua coscienza la parola “mio” ma è costretto ad andare dove essa lo porti. Questa parola, tuttavia, cancella la solitudine»[17]
Chi ama di un amore autentico non teme di perdere il suo sé nel donarsi all’altro. Anzi sperimenta un’aumento di essere e pienezza proprio in questo suo continuo donarsi.
La sua esistenza stessa acquista autenticità man mano che essa viene spesa per affermare ciò che ha più valore.
Nell’Annuncio a Maria Paul Claudel fa dire ad un suo personaggio:
A che vale la vita se non per essere donata?[18]
Il senso della nascita
L’amore, tuttavia, si attesta, nella fedeltà.
L’affermazione dell’altro, nell’atto libero, chiede di essere verificabile e duraturo. La fede nell’amore che l’altro vive nei nostri confronti, ha origine nella veridicità del suo atto e nel riproporsi continuo di essa. Nella fedeltà, affermazione vera e ripetuta dell’altro, attraverso atti totalmente liberi, si annuncia la radice profonda da cui sgorga il valore dell’esistenza.
Solo un fraintendimento o un misconoscimento del senso di questo amore ha potuto portare ad un disprezzo della vita pari a quello di fronte al quale siamo posti oggi.
Nascere, allora, vuol dire essere introdotti in una nuova esistenza, sia essa corporea o spirituale, da un atto d’amore che deve essere continuamente riaffermato attraverso altri atti d’amore ed il cui senso ultimo é quello di dare alla persona la possibilità di realizzare ciò che essa é chiamata ad essere.
La nascita si pone fra l’amore da cui trae origine e la vocazione che l’esistenza ha il compito di realizzare.
Come possiamo, allora, tornare al senso vero della nascita e dell’esistenza strappandoci di dosso la visione assolutamente egocentrica alla quale siamo giunti e che ha come esito un disprezzo della vita e quindi del nascere di cui siamo sempre più testimoni?
Possiamo farlo solo attraverso la fedeltà al senso vero delle cose. Una fedeltà alla direzione che l’esistenza e la realtà hanno ricevuto da chi le ha create per amore.
Senza l’obbedienza al reale che scaturisce da questa fedeltà c’é la possibilità di una incomprensione del senso dell’esistenza stessa che non può che condurre al desiderio del nulla e della nullificazione di ciò che esiste. Una nullificazione che, sempre più, da un piano spirituale si sta spostando verso quello fisico portando con sé violenza e morte.
Solo la riscoperta del significato autentico dell’amore come fonte e alimento dell’esistenza può condurre ad accogliere il senso vero della nascita intesa come l’essere adagiati in uno spazio e in tempo che ci sono dati al fine di realizzare il compito che siamo chiamati a svolgere, compito unico e del quale abbiamo una responsabilità assoluta.
Concludo condividendo con voi quanto da me scritto in una pagina di diario del mese di settembre del 1999.
«Una mattina di fine settembre. Mi alzo, il sole è già alto e illumina la campagna che si trova lungo la strada che conduce all’ospedale dove il giorno prima è nato il mio primo figlio. Ho il cuore gonfio di gioia e tutto, intorno a me, sembra avere una luce diversa. Mi accorgo che in un istante preciso del tempo, un istante di tempo e nel tempo tutto è cambiato. La mia esistenza è mutata radicalmente. Non posso più pensare a me stesso senza aver davanti agli occhi il volto della persona che prepotentemente è entrata a far parte della mia vita. Come un dono immenso si è introdotta in quella che, fino a quel momento, era la mia solitudine e l’ha riempita di una enorme responsabilità: vivere per accompagnarla a realizzare l’esistenza di cui ho collaborato a fargli dono. E questo nel rispetto profondo della sua libertà e del destino cui la sua vita è consegnata».
Ecco solo in questo modo conviene far nascere chi, poi, accompagnare nel compito grande di realizzare l’unica e irripetibile esistenza che ha ricevuto in dono.
Note
- Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, Edith Steins Werke XVI, Herder, Freiburg i.Br. 1994, tr. it. di Michele D’Ambra, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 185. ↑
- Giovanni Paolo II, La Veronica, in Karol Wojtyla, Opere Complete, Bompiani, Milano 2011. ↑
- Giovanni Paolo II, Canto del Dio nascosto, op. cit. ↑
- R. Guardini, L’essenza del Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1993. ↑
- C. Péguy, Il mistero dei santi innocenti, in Lui è qui, Milano, Rizzoli 1998, pag. 373-375 ↑
- Edith Stein, Die ontische struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik, in Edith Steins Werke, vol. VI, Herder, Friburgo i.Br., 1962, tr. it. di M. D’Ambra, La struttura ontica della persona, in Natura Persona Mistica, a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1997, p. 51. ↑
- Idem, p. 52. ↑
- Idem, p. 56. ↑
- Mettendosi alla sequela di un santo o di una persona autorevole a motivo della propria fede ↑
- Edith Stein, Kreuzeswissenschaft – Studie über Johannes a Cruce, in Edith Steins Werke, Band I, Herder, Friburgo i.Br. 1950; tr. fr., La science de la Croix. Passion d’amour de Saint Jean de la Croix, in «Les oeuvres d’Edith Stein», Tome I, Nauwelaerts, Parigi 1957; tr. it., Scientia Crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, OCD, Roma 1996, p. 182. ↑
- Edith Stein, La struttura della persona umana, op. cit., p. 124. ↑
- Edith Stein, La struttura ontica della persona, op. cit., p. 61. ↑
- Idem, p. 66. ↑
- Idem, p. 68. ↑
- Edith Stein, La struttura ontica della persona, op. cit,, p.72. ↑
- Edith Stein, Scientia Crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, op. cit., p. 216. ↑
- Karol Wojtyła, Pietra di Luce. Poesie, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1979, p. 99. ↑
- P. Claudel, L’annuncio a Maria, Rizzoli, Milano 2001. ↑